Quando Javier Zanetti ricorda la notte magica del 22 maggio 2010 al Santiago Bernabéu di Madrid, i suoi occhi brillano ancora come quelli di un ragazzino che ha appena realizzato un sogno impossibile. Eppure, in quel momento, Zanetti non era più un giovane alla ricerca di conferme: aveva già 37 anni, un’età che per la maggior parte dei calciatori rappresenta la fine della carriera. Molti lo avevano già dato per finito, altri gli suggerivano di appendere gli scarpini al chiodo per non rischiare di macchiare la sua grandezza con prestazioni in calo. Ma Javier, con il suo carattere silenzioso e la sua determinazione argentina, non si è mai arreso

Il 2010 non fu soltanto la stagione del Triplete per l’Inter, ma anche il coronamento di un percorso umano e sportivo unico. Per Zanetti, quel trofeo alzato al cielo non rappresentava soltanto la Champions League, la coppa più ambita dai club europei, ma il riconoscimento del valore della perseveranza. Anni e anni di sacrifici, di delusioni europee, di eliminazioni brucianti e di critiche ingiuste erano stati finalmente cancellati da quella serata in cui l’Inter sconfisse il Bayern Monaco di Louis van Gaal. Zanetti era lì, con la fascia da capitano al braccio, a gridare al mondo intero che il duro lavoro e la costanza pagano sempre
Il simbolismo di quella vittoria è qualcosa che va oltre il calcio. Zanetti, figlio di un muratore di Buenos Aires, partito da una vita semplice e piena di sacrifici, aveva fatto della disciplina e dell’umiltà le sue armi più forti. Non era il calciatore più tecnico della sua generazione, non era quello con il dribbling più spettacolare né con il tiro più potente. Ma era quello che non mollava mai, quello che correva più di tutti, che curava il proprio corpo come un tempio, che non si lasciava abbattere dalle sconfitte. La sua storia ricorda a tutti che la perseveranza batte il talento quando il talento non lavora
Quella sera al Bernabéu, mentre sollevava la Coppa dalle grandi orecchie, Javier sentiva sulle spalle il peso di milioni di interisti che avevano atteso quel momento da 45 anni. L’Inter non vinceva la Champions dal 1965, e molti tifosi non avevano mai visto la propria squadra trionfare in Europa. Lui, che era arrivato all’Inter nel lontano 1995, aveva visto passare decine di allenatori, centinaia di compagni di squadra, anni di progetti incompiuti e delusioni cocenti. Eppure era rimasto sempre lì, fedele alla maglia, pronto a dare tutto. Per questo la sua gioia fu diversa da tutte le altre: perché sapeva che ogni passo falso del passato lo aveva portato a quella vetta
Oggi, guardando indietro, Zanetti non parla soltanto di una vittoria sportiva, ma di una lezione di vita. “Molti mi dicevano che ero finito” ha raccontato “ma io sapevo che potevo ancora dare tanto. Non bisogna mai smettere di crederci, anche quando gli altri non credono in te.” Una frase che non è soltanto una dichiarazione d’amore per l’Inter, ma un messaggio universale per chiunque affronti ostacoli nella vita.
Il 22 maggio 2010 non è stato soltanto il giorno in cui l’Inter ha scritto la pagina più gloriosa della sua storia recente. È stato anche il giorno in cui Javier Zanetti ha dimostrato al mondo che la vera forza non si misura soltanto con il talento, ma con il cuore, la resilienza e la capacità di non arrendersi mai. Ed è per questo che, a distanza di tanti anni, quella coppa rimane non solo un trofeo, ma un simbolo immortale di perseveranza.