In seguito alle controverse dichiarazioni di J.K. Rowling, la questione di “dove sta il confine tra fair play e inclusione di genere” è diventata un argomento scottante, dando vita a un dialogo multiforme tra la comunità LGBT+, le organizzazioni sportive e i ricercatori di fisiologia dell’esercizio.

Le recenti uscite della scrittrice britannica J.K. Rowling, nota per la saga di Harry Potter, hanno riacceso un dibattito infuocato sul ruolo degli atleti transgender nello sport femminile. A fine agosto 2025, Rowling ha attaccato duramente l’atleta australiana di handball Hannah Mouncey, una donna transgender che aspira a competere alle Olimpiadi di Los Angeles 2028 e Brisbane 2032. In un post sui social, Rowling ha definito Mouncey un “uomo che inganna” e ha espresso preoccupazione per il rischio di infortuni alle atlete biologiche femminili, accusando il sistema di ignorare la sicurezza delle donne. Mouncey, ex giocatrice di football australiano, ha replicato difendendo i diritti degli atleti trans, sostenendo che i risultati non dimostrano un vantaggio ingiusto e che le restrizioni basate sul testosterone – come quelle imposte dalla Federazione Internazionale di Handball dal 2022, che richiedono livelli sierici inferiori a 5 nmol/L per almeno 12 mesi – sono sufficienti per garantire equità. Questo episodio non è isolato: già ad aprile, Rowling aveva risposto aspramente al comico John Oliver, che nel suo programma Last Week Tonight aveva criticato l’ossessione della destra americana per il divieto di atleti trans nello sport femminile, accusandolo di ignorare le evidenze scientifiche su presunti vantaggi biologici.
Il fulcro del contendere è il delicato equilibrio tra fair play – inteso come competizione equa basata su differenze biologiche – e inclusione di genere, che mira a garantire a tutti, indipendentemente dall’identità di genere, l’accesso allo sport come diritto umano fondamentale. Rowling, che da anni si schiera contro ciò che definisce “l’erosione dei diritti delle donne”, ha trovato alleati in atlete come quelle protagoniste di una campagna pubblicitaria del febbraio 2025, che denuncia la “vittimizzazione” delle sportive biologiche per aver osato opporsi alla partecipazione di donne trans. La scrittrice ha esplicitamente sostenuto questa iniziativa, ribadendo che “sostengo i diritti uguali per tutti, ma non concordo che le donne trans abbiano poco o nessun vantaggio sulle atlete biologicamente femminili”. Per i suoi sostenitori, il fair play richiede barriere chiare: la pubertà maschile conferirebbe vantaggi irreversibili in termini di massa muscolare, densità ossea e capacità cardiovascolari, rendendo impossibile una competizione paritaria senza compromessi.
Dall’altro lato, la comunità LGBT+ vede nelle parole di Rowling un’eco di transfobia sistemica, che perpetua stereotipi e marginalizza le persone trans. Organizzazioni come GLAAD hanno condannato le sue dichiarazioni come “attacchi alla dignità transgender”, sottolineando che i diritti trans sono diritti umani e che le restrizioni generalizzate alimentano discriminazioni. In un thread su Reddit dedicato a Rowling nel giugno 2025, centinaia di utenti LGBT+ hanno condiviso storie personali di esclusione dallo sport, accusandola di ignorare il trauma psicologico causato da politiche discriminatorie. Solo tre giorni fa, Rowling ha definito “ignorante” l’ex co-protagonista di Harry Potter Emma Watson, che aveva criticato il fenomeno della “cancel culture” applicato alle voci trans-positive, ribadendo che tali posizioni “cancellano l’identità e la dignità delle persone transgender”. Per la comunità, l’inclusione non è un lusso, ma una necessità: lo sport deve essere uno spazio di empowerment, non di esclusione, e le politiche basate su evidenze scientifiche, piuttosto che su paure infondate, sono la via per risolvere il dilemma.
Le organizzazioni sportive, nel frattempo, navigano in acque tempestose, cercando di bilanciare questi poli opposti attraverso politiche in evoluzione. A febbraio 2025, l’NCAA ha annunciato una nuova norma che permette agli atleti assegnati maschi alla nascita di allenarsi con squadre femminili e ricevere benefici come cure mediche, pur mantenendo restrizioni per le competizioni ufficiali basate su livelli ormonali. Al contrario, il Comitato Olimpico degli Stati Uniti (USOPC) ha introdotto a luglio un divieto effettivo per atleti trans nelle categorie femminili, citando “sicurezza e equità” come priorità, in linea con emendamenti proposti dal CIO sotto la guida di Kirsty Coventry. Queste divergenze riflettono un panorama frammentato: mentre l’IOC mantiene linee guida inclusive dal 2021, enfatizzando che non esistono “presunzioni di vantaggio”, federazioni come World Athletics e la Federazione Internazionale di Nuoto hanno optato per divieti più rigidi. Un articolo pubblicato a settembre su The Conversation evidenzia come queste politiche lottino per conciliare fair play e inclusione nelle università americane, con sostenitori dell’inclusione che argomentano come il genere sia una costruzione sociale più che biologica.
Al centro del dibattito scientifico, i ricercatori di fisiologia dell’esercizio offrono dati contrastanti ma preziosi. Uno studio del 2025 pubblicato sul British Journal of Sports Medicine ha rilevato che le donne trans mantengono una forza di presa manuale assoluta superiore alle donne cisgender, anche dopo terapia ormonale, sebbene non vi siano differenze relative alla massa magra o alla dimensione della mano. Al contrario, ricerche dell’ACSM indicano che la forma fisica e le prestazioni delle donne trans sono simili a quelle delle donne cis, e significativamente inferiori agli uomini cis, suggerendo che la terapia di affermazione di genere riduca notevolmente i vantaggi. Un’analisi longitudinale su runner e nuotatrici trans, apparsa ad agosto su PMC, conferma un calo delle prestazioni dopo la transizione, ma solleva interrogativi su sport di forza come il handball. MedRxiv, in uno studio di maggio, conclude che, pur con una massa magra maggiore, la fitness complessiva è comparabile, e non giustifica divieti blanket. Questi risultati alimentano un dialogo multiforme: mentre alcuni fisiologi enfatizzano i residui post-pubertali, altri insistono su approcci individuali, come test caso per caso.
In questo turbine di voci – dalla rabbia di Rowling alla difesa accorata della comunità LGBT+, dalle politiche sportive caute alle evidenze scientifiche in divenire – emerge una verità ineludibile: lo sport, specchio della società, deve evolvere. Il confine tra fair play e inclusione non è una linea netta, ma un ponte da costruire con empatia, dati e dialogo. Solo così, atleti come Mouncey e le loro avversarie potranno competere non contro paure, ma per sogni condivisi. Fino ad allora, il dibattito continuerà a scottare, ricordandoci che l’equità non è zero-sum, ma un guadagno collettivo.